di Vera Martinella
(Fondazione Veronesi)
MILANO - «Da circa due anni sto lottando contro un tumore al polmone. Lavoro come impiegato per un’azienda commerciale e dal mio primo intervento, nel 2008, il mio datore di lavoro è poco solidale, dicendomi che di un dipendente a mezzo servizio non sa che farsene.
In questo lungo periodo di terapie sono sempre andato a lavorare, sforzandomi di fare al meglio il mio dovere per poter garantire uno stipendio alla mia famiglia e soprattutto per riuscire a mantenere i miei due figli, che ancora studiano. Ora sono sempre più preoccupato perché con l'aggravarsi della crisi economica temo di potere essere licenziato. Mi chiedo perché è così difficile garantire il proprio diritto al lavoro?». Il racconto di Roberto è disarmante: ha 50 anni e vive ad Alessandria, ma la sua storia è tutt'altro che eccezionale, perché sono sempre di più le segnalazioni di discriminazioni sul lavoro ai danni di pazienti oncologici. Come prova la vicenda della palermitana Rosa: «Mio marito si è ammalato di cancro e mentre faceva la chemioterapia l’azienda lo ha licenziato, nonostante avesse fatto solo due settimane di malattia nel 2010 dietro idonea certificazione medica a riprova delle cure che stava facendo».
L'HELP-LINE - «I casi di malati licenziati, trasferiti, degradati, mobbizzati dopo una diagnosi di cancro sono in continuo aumento» conferma Elisabetta Iannelli, vicepresidente dell’Associazione italiana malati di cancro (Aimac), mentre consulta l’ultimo rapporto sulle richieste pervenute all’Help-line, il servizio gratuito a disposizione di malati e familiari, con specialisti medici, psicologi e avvocati. «Le domande negli ultimi tempi vertono soprattutto sui benefici socio-previdenziali più che sulle cure» precisa Iannelli. «E sono frequenti le segnalazioni che lamentano di non essere stati messi al corrente dei propri diritto."Se lo avessi saputo prima" è un ritornello che non vorrei più sentire». Leggi, diritti e tutele esistono, bisogna conoscerli e farli applicare, senza farsi incappare nelle lungaggini burocratiche.
UN PROBLEMA DIFFUSO - Oggi in Italia due milioni di persone vivono con un’esperienza di tumore dal quale sono guarite o con il quale convivono in forma cronicizzata. E le stime indicano che fra 10 anni saranno oltre 2,5 milioni i «sopravvissuti», mentre sono 255mila i nuovi casi ogni anno. Cifre che hanno un impatto rilevante sulle vite dei malati, dei loro familiari, ma anche sull’economia e la vita sociale della comunità. C’è una platea crescente di persone per le quali l’assistenza non riguarda più accertamenti diagnostici e terapie efficaci, ma una molteplicità di misure suscettibili di incidere sulla qualità della vita residua, sulla possibilità di sostegno economico e sul reinserimento nella vita lavorativa.
CONSERVARE IL POSTO - «Un anno fa mi sono ammalata di tumore al colon, sono stata operata e stomizzata. Però vorrei tornare in ufficio, ne ho bisogno psicologicamente ed economicamente, vivendo da sola e non avendo nessuno che mi mantiene. Ma il mio datore ha mostrato chiaramente di non volermi più e continua a porre ostacoli burocratici al mio rientro». Chiara è una signora vicina ai 60 anni, segretaria in un grosso studio di commercialisti della capitale, testimone di un’esigenza molto diffusa: riprendere a lavorare, oltre che per far quadrare il bilancio familiare, anche meglio vivere meglio il dopo-cancro. E ottenere agevolazioni per rientrare in azienda, in forme compatibili con gli esiti della malattia, è un diritto: c’è il periodo di comporto (ossia un lasso di tempo durante il quale viene conservato il posto alle persone che si ammalano), c’è l’orario ridotto e ci sono permessi per i controlli e gli accertamenti necessari. «Affinché i propri diritti non siano negati, è necessario che la persona sia informata sulle tutele stabilite a livello legislativo – commenta Iannelli -. Non di rado, invece, incontriamo rabbia e stupore da parte di chi chiama l’help line e scopre d’aver perso molto tempo e denaro perché ignorava i propri diritti». Le richieste, infatti, riguardano soprattutto la possibilità di assentarsi senza prendere i giorni di malattia o sfruttare quelli di ferie.
DEGRADATI O TRASFERITI – Ma la gamma di possibili problemi sul lavoro non è finita. Sale, infatti, anche il numero di domande relative al divieto di trasferimento, all’obbligo di reperibilità durante il controllo da parte del medico fiscale (sempre più datori usano questo mezzo per provare «un’ingiustificata assenza per malattia»), al pensionamento anticipato e alla possibilità di ottenere il passaggio dal tempo pieno al part-time. In particolare, cambi di sede e mobbing paiono strumenti «efficaci» per convincere il malato a licenziarsi. Come racconta Pina, 53enne impiegata in un supermercato in provincia di Chieti, che nel 2009 ha subito un intervento di quadrantectomia e rimozione dei linfonodi per un tumore al seno: «Dopo cicli di chemio e radioterapia, ora sono in terapia ormonale. Oltre alla malattia abbiamo problemi di soldi (perché mio marito a febbraio è stato licenziato), per cui non posso chiedere il part-time. E ora pure il trasferimento… non so più che fare! Fino a un mese fa per raggiungere il lavoro dovevo fare 45 km tra andata e ritorno. Ora mi hanno spostata in una sede ancora più lontana da casa: fisicamente, in queste condizioni, non reggo il viaggio ogni giorno. Sono anni che mi spostano fregandosene di tutto. Pure del cancro». E poi c’è Francesco, 57 anni, un linfoma non Hodgkin diagnosticato nel 2007, cicli di chemioterapia fino alla fine del 2008: «Sebbene oggi stia meglio e la mia vita proceda, sono sempre stanco a causa dei miei ritmi lavorativi frenetici. All’inizio della malattia, nonostante le cure, ho mantenuto la mia posizione manageriale, ma l’anno scorso mi è stato chiesto di fare un passo indietro nella scala gerarchica: una cosa temporanea, dicevano. Avrei ripreso il mio posto appena risolto il problema. Ho accettato, non reggevo davvero lo stress. Ma da quel momento non conto più niente, nessuna riunione, mi sento messo da parte. E non posso dare le dimissioni, mi mancano pochi anni alla pensione…».
CRESCONO LE DISCRIMINAZIONI A CARICO DEI «CAREGIVER» – A conti fatti, se ai due milioni attuali di pazienti sopravvissuti alla malattia aggiungiamo i caregiver, il cancro cambia la vita di circa cinque milioni di persone. I caregiver sono quelli che assistono i malati di tumore in modo continuativo: familiari, amici, colleghi di lavoro o volontari. Sono equilibristi che devono coniugare lavoro e famiglia con la funzione di accudimento, districandosi tra mille difficoltà. E sempre più spesso, come familiari (genitori, figli, coniuge convivente) di un malato, richiedono di poter usufruire del congedo straordinario familiare biennale retribuito. Con crescente frequenza vengono a loro volta sottoposti a mobbing, colpiti con multe ingiuste, vessati dai controlli fiscali e alla fine licenziati. Anche per loro, però, esistono leggi e garanzie da far valere. Ecco le principali, tenendo presente che esistono, in aggiunta, Provvedimenti di natura amministrativa in materia oncologica e delle normative regionali: Legge 23 dicembre 2000, n. 388; Decreto-legge 23 aprile 2003, n.89; Decreto-legge 29 marzo 2004, n.81; Decreto legislativo 25 luglio 2006, n.257 ; Legge 24 dicembre 2007 , n. 244
Fonte: Corriere della Sera del 03/06/2010
Tumori: licenziati, trasferiti, degradati, mobbizzati dopo la diagnosi
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