di Elisa Venturi
Il naso rosso e i camici bianchi. Se aggiungi volontario alla parola ospedale, è di certo questa la prima immagine. Ma se ci pensi bene, i volontari che operano e si adoperano in ambito sanitario, hanno milioni di facce, colori e compiti.
Non tutti entrano in ospedale, certo, ma quello che hanno in comune è la voglia di aiutare gli altri. Aiutando anche un po’ se stessi. Accade in Avis, dove il dono di sé ha la forma di sangue, plasma o piastrine, oltre che di tempo e testimonianza. Come accade in Croce Rossa o nella miriade di piccole entità che portano pasti e sorrisi tra i letti degli anziani come dei bambini, costretti a rimanere in quelle stanze bianche e sempre troppo piccole per settimane e mesi. Ma accade anche fuori dall’ospedale, quando le facce e i corpi dei volontari sono quelli martoriati dalla malattia, o che una malattia l’hanno vista portarsi via un proprio caro. E contro quella malattia hanno giurato vendetta: sostenendo la ricerca, l’informazione, la prevenzione. Per trasformare quella malattia che gli ha cambiato la vita, in un nemico sconfitto, che possa fare sempre meno paura.
Alla fine del secolo scorso il cancro ha iniziato a far meno paura. Quello che le nonne faticano ancora a chiamare per nome - preferendo limitarsi a dire “il male” -, era il protagonista invisibile di uno spot che invitava a controlli e informazione, ma che dava anche la clamorosa notizia: dal cancro si può guarire.
Sono oltre due milioni quelli che hanno avuto o hanno il cancro. Più della metà di loro vive da più di cinque anni - la “soglia” oltre la quale si può dire di stare bene - anche se molti di loro non possono dire di avere una vita normale, anche a causa degli effetti collaterali, per esempio, della chemioterapia.
«Il volontariato oncologico ha un valore aggiunto - dice al nostro giornale Francesco De Lorenzo, medico e ricercatore, ex ministro della Salute ed ex malato di cancro e tra i fondatori dell’Associazione Italiana Malati di Cancro - che è proprio quello di contare su persone che la malattia l’hanno avuta, l’hanno vinta o la stanno combattendo. Possono contare sull’esperienza quando propongono progetti e prevenzione, perché quello che sanno lo hanno imparato su di sé. A volte pagando anche il prezzo di una scarsa informazione. Questo abbiamo voluto fare con Aimac: creare un veicolo d’informazione». Ma che potesse essere un ottimo veicolo di mediazione tra ospedale e paziente, per parlare la lingua del malato, ma con le competenze di un medico. «La malattia credo sia la spinta a voler fare di più per gli altri». E se hai la fortuna di uscirne, allora la tua esperienza non può andare sprecata, perché può essere sufficiente a dare una speranza in più a qualcun altro. «I malati da soli, però, non bastano - spiega ancora De Lorenzo -. Da questa convinzione siamo partiti per creare una serie di alleanze con medici e ospedali, che ci potessero aiutare non solo a stare vicino al malato, ma anche a continuare a seguirlo, per garantirgli una buona qualità della vita». Una vita che è sempre più lunga. Questo significa sempre più malati - di qualcosa che ha più possibilità di comparire dopo i 65 anni -, ma anche la lenta trasformazione del tumore in una malattia cronica. «Con la quale si può e si deve imparare a convivere. Grazie alle leggi ad hoc ottenute per i malati di cancro, ma anche grazie alla ricerca, per esempio, sugli effetti a lungo termine di chemio e operazioni. Capita, infatti, che gli effetti collaterali appaiano a distanza di anni: su questo ci stiamo concentrando». Perché di cancro ci si ammala di più, ma si muore di meno. Anche se questo significa convivere anni con una malattia che ora, anche grazie alle associazioni di volontariato, non è più invincibile. Diagnosi precoce, nuove terapie e medicina personalizzata sono gli alleati.
Fonte: Corriere Nazionale